lunedì 5 dicembre 2011

In giro per mostre a Roma - da Raffaello e Michelangelo a Caravaggio

Torno a scrivere dopo diverso tempo e vorrei riprendere con alcune impressioni derivate dalle ultime frequentazioni romane. Si parla di mostre e si deve allora subito distinguere tra due prospettive: la visita per ammirare dal vivo capolavori e opere studiate solo sui libri, in un percorso esclusivamente di fruizione estetica, e la visita che dovrebbe lasciare una traccia anche livello formativo, ovvero dovrebbe accrescere le nozioni su un determinato periodo storico seguendo un'ottica scientifica e non esclusivamente didattico-manualistica. Il problema principale è la degradazione della mostra a semplice e basso evento di consumo turistico-propagandistico. Lo spiega bene Montanari nell'articolo Il sonno della ragione genera mostre quando scrive "Per rendere vero il luogo comune consolatorio per cui ‘le mostre avvicinano al patrimonio artistico e alla cultura il grande pubblico’, esse dovrebbero, al contrario, stimolare il senso critico ed il pensiero, non l’evasione e la distrazione. Una mostra potrebbe definirsi educativa se il pubblico uscisse dall’ultima sala persuaso a recarsi in un museo, in una chiesa o in una libreria per colmare alcune delle lacune intellettuali o culturali emerse durante la visita. E invece accade tutto il contrario". Per secondo spesse volte ci si trova con allestimenti completamente finti e spaesanti che alterano la percezione dell'opera spingendo più verso un'atmosfera di maniera che verso una lettura pulita e funzionale. Primo imputato è la mostra Il rinascimento a Roma. Nel segno di Michelangelo e Raffaello. Ambiente inadeguato, allestimento pessimo e claustrofobico, tentativo di definizione di un periodo di per se complesso e articolato (la prima metà del 500), scelta di opere prese in larga parte da musei romani (e quindi fruibili nel loro contesto in un raggio di poche miglia), inserimento di opere non legate al contesto romano (come la scelta dei Raffaello, di certo i primi che hanno avuto a disposizione, tanto per inserire il gettone di presenza). Tra le poche cose che si salvano, oltre ribadisco la valenza estetica delle singole opere, il commovente originale della celebre lettera di Raffaello a Leone X, lo splendido disegno di Raffaello del Pantheon (tra le prime vedute esatte di monumenti romani), la produzione privata dell'ultimo Michelangelo con il confronto delle tavole (autografe?) della crocifissione e della pietà. 



La mostra Roma al tempo di Caravaggio appare ancor più un disastro. Le chiese romane sono state completamente depredate di pale d'altare (ben 40 in mostra) esposte poi su falsi e stucchevoli altari in finto marmo che rimandano un'atmosfera cupa e cimiteriale, da film dell'orrore. Se lo scopo era una ricognizione scientifica, infatti, niente di meglio sarebbe derivato da un allestimento pulito e minimale, anche asettico, che mettesse in evidenza l'opera prima di tutto e non la relegasse a pura immagine di se stessa. La Madonna dei Pellegrini, all'ingresso, in una posizione per nulla meritevole messa a confronto con non notevole tela dalla scuola dei Carracci. Percorso con poco filo logico, se si esclude una divisione prettamente cronologica. Troppe tavole didattiche sotto le opere che rischiano di smarrire lo sprovveduto visitatore Errore nelle iconografie con l'Allegoria di Roma di Valentin de Boulogne che diventa una retorica Allegoria dell'Italia. Ennesimo tentativo di far passare per originale di Caravaggio una tela privata (il sant'Agostino) recentemente scoperta. Quindi poca scientificità. Si spera che contributi interessanti vengano dalla seconda parte del catalogo, con nuovi saggi (ma anche il catalogo generale risulta interessante), e dal ciclo di conferenze: da non perdere quella della Macioce sul Caravaggio attraverso le incisioni (tema pochissimo affrontato), quella sulla pittura di paesaggio a Roma e su Roma vista da Milano. Tra le cose interessanti in mostra, invece, lo splendido lacerto della grande tela di Sezze di quel geniale caravaggista che fu Orazio Borgianni (dal quale questo blog, finalmente lo sveliamo, ha preso l'immagine di copertina), il poetico confronto tra le due Madonne con bambino di Orazio e Artemisia Gentileschi, l'altro confronto tra l'Angelo custode di Antiveduto Grammatica e il Tobiolo e l'angelo dello Spadarino, la bellissima Sacra Famiglia di Cavarozzi, il Martirio di Santa Caterina di Reni, lo sfondo neutro della sepoltura di Cristo di van Baburen da San Pietro in Montorio. Un recente articolo di Tomaso Montanari sulla mostra Roma e Caravaggio, scopriamo gli altarini, sintetizza bene tutti i punti negativi dell'esposizione.


Infine, girando nei pressi di Piazza Navona, non ho potuto non notare il Pasquino restaurato. Incredibilmente, ignorando del tutto la sua gloriosa storia, non è più possibile affiggere invettive e satire sul basamento poichè è stato posto a fianco un'anonimo totem di ferro che dovrebbe accogliere i versi.


Il Fatto Quotidiano, Tommaso Montanari, 2 dicembre

ALTO TRADIMENTO. Roma al tempo di Caravaggio non è solo l’ennesima kermesse caravaggesca promossa da Rossella Vodret nei due anni che sono passati dalla sua nomina a soprintendente di Roma: è letteralmente un atto di alto tradimento, culturale e professionale. La frenesia caravaggesca della dottoressa Vodret è tale che, al posto del Bacco di Bartolomeo Manfredi, a Palazzo Venezia c’è un cartello che informa che l’opera arriverà solo il 1 dicembre, al ritorno dalla inconsistente mostra su «Caravaggio en Cuba», sempre realizzata su progetto della Vodret.

Insomma, per disciplinare il traffico aereo dei Caravaggio movimentati dalla soprintendenza di Roma ormai ci vuole una torre di controllo dedicata. Ma la cosa più grave di Roma al tempo di Caravaggio è che quasi quaranta opere sacre sono state strappate dagli altari veri che ancora le accolgono nelle chiese per essere esibite a Palazzo Venezia, rimontate su finti altari di finto marmo, in una specie di galleria cimiteriale per cui davvero non c’era bisogno di scomodare Pier Luigi Pizzi. In questo momento le chiese di Roma sono dunque ridotte ad un colabrodo, anche perché quello di Palazzo Venezia non è l’unico luna park in attività: la stessa Vodret ha, per esempio, autorizzato l’espianto dalla Cappella Cerasi (in Santa Maria del Popolo) e la spedizione a Mosca della Conversione di Paolo di Caravaggio, un atto che distrugge (pro tempore, salvo incidenti) uno dei pochi ecosistemi artistici del tempo di Caravaggio che ci sia arrivato intatto.

E ai musei non va molto meglio: i pochi caravaggeschi dell’appena inaugurato Palazzo Barberini che non sono a Cuba sono stati deportati in Piazza Venezia, e anche la Galleria Borghese e la Corsini hanno pagato un alto prezzo all’ambizione della soprintendente. D’altra parte, quale sia la considerazione della soprintendenza per i musei, lo dice lo stato del disgraziatissimo Museo Nazionale di Palazzo Venezia, che sembra sempre il parente povero della mostra di turno nello stesso palazzo un degrado espresso perfettamente dal busto quattrocentesco di Paolo II ridotto a decorazione del guardaroba della mostra. E sta proprio qua l’alto tradimento: è la soprintendente stessa a lacerare il fragile e unico tessuto artistico romano che è pagata per difendere. In un conflitto di interessi intollerabile, la Rossella Vodret curatrice della mostra chiede i prestiti alla Rossella Vodret soprintendente: e, non sorprendentemente, li ottiene tutti. Tutto questo per una mostra che non ha nulla - ma davvero nulla - a che fare, non dico con la ricerca scientifica degli storici dell’arte seri, ma nemmeno con un buon progetto di divulgazione. Il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele E. M. Emanuele, scrive in catalogo che l’«assunto scientifico dell’esposizione è il confronto tra le due correnti del naturalismo e del caravaggismo»: che, invece, sono la stessa cosa.

Ma non bisogna fargliene troppo carico, perché è davvero difficile capire quale sia, quel famoso assunto: il “tempo di Caravaggio” (morto nel 1610) viene infatti dilatato fino al 1630, dimenticando un secolo di distinzioni storico-critiche e ammannendo al pubblico un polpettone indigeribile. Fin dalla prima sala (dove tiene banco un confronto, malissimo impostato, tra un capolavoro di Caravaggio e una tela della bottega di Annibale Carracci), la mostra appare dilettantesca, slabbrata, disinformata: una mostra come la si sarebbe potuta fare nel 1922. E nel 2011, con un tavolo pieno di monografie, tre milioni di euro in tasca e una buona ditta di traslochi a disposizione, l’avrebbe fatta meglio un laureando qualunque dei (pessimi) corsi triennali in Valorizzazione dei Beni culturali.

Ciliegina sulla torta, ecco la strizzatina d’occhio al mercato dell’arte. Finalmente tutti possono vedere il quadro lanciato a giugno come un Caravaggio a prova di bomba. L’esame diretto conferma che il SantAgostino è un gran bel quadro: ma dipinto trent’anni almeno dopo la morte del Merisi. A parte la curatrice della mostra, il proprietario e la professoressa Danesi Squarzina (che lo ha pubblicato), nessuno crede all’attribuzione a Caravaggio. Una pattuglia di specialisti autorevoli (tra cui Ursula Fischer Pace) pensa che sia un’opera del cortonesco Giacinto Gimignani, mentre a me ricorda addirittura le primissime prove di Carlo Maratti nella bottega di Andrea Sacchi (1640 circa).

Comunque sia, siamo lontani anni luce da Caravaggio: e ora c’è solo da sperare che non si provi a rifilarlo allo Stato italiano per qualche milione di euro. Non molti sanno che in Senato giace da mesi un’interrogazione in cui il senatore Elio Ianutti (IDV) chiede al ministro per i Beni culturali perché Rossella Vodret ricopra il posto di Soprintendente di Roma senza esser mai riuscita a superare un concorso da dirigente. Ebbene, dopo il colossale disastro di «Roma al tempo di Caravaggio», la soprintendente di Roma potrebbe prendere in considerazione una soluzione che farebbe risparmiare tempo al Senato e al suo ministro: dimettersi.


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