martedì 13 ottobre 2009

Contemporanea al Castello

Dal 3 al 7 ottobre presso il Palazzo Baronale di Macchia d’Isernia si è svolta la XXVIII edizione della Mostra d’arte contemporanea, significativo momento, per il paese e per la zona, di riflessione sull’arte odierna e di scambio tra gli artisti.

Sentendo alcune riflessioni tra gli artisti che, al seguito delle loro opere, hanno presenziato l’inaugurazione di questa importante rassegna d’arte contemporanea per il territorio d’Isernia, ho captato alcune impressioni che a buon diritto possono connaturare positivamente l’esposizione. “Può essere bella o brutta, l’importante è che l’artista risolva nell’opera le proprie intenzioni”: in questa frase si cela tutto l’amore che anima il fare creativo, che sia accolto o meno, e tutta la passione che si cela dietro l’atto stesso del creare. Sviluppare le proprie sollecitazioni, raggiungere personali obiettivi poetici, risolvere, nell’opera e attraverso l’opera, istanze interiori penso infatti sia il massimo raggiungimento per un artista, aldilà dell’approvazione o meno del pubblico. Se a ciò uniamo la verace passione che anima questo labor, il confronto, e a volte lo scontro, con gli altri maestri, la presa di coscienza della validità della propria realizzazione, si comprende allora come tali rassegne non sono solo utili per il pubblico, che ha occasione di avvicinarsi a forme d’arte spesso non convenzionali, ma sono quasi indispensabili per gli stessi artisti quali significativi momenti di raffronto e verifica. Raffronto con gli altri e verifica con se stessi.

L’esposizione, svoltasi in un ampio e caratteristico ambiente del castello, si è caratterizzata per il taglio sobrio dato alla musealizzazione delle opere, appese non direttamente ai muri ma su rozze ed abbozzate strutture lignee; lo spazio risulta così simbolicamente connaturato da un piacevole sapore di vita e di lavoro che di certo concorre a non creare troppo distacco tra i manufatti e lo spettatore. Gli artisti, definiti dal direttore artistico Antonio Tramontano “itineranti” per la loro caratteristica di girare, attraverso le loro opere e attraverso diverse estemporanee, tra i borghi della provincia portando percettibili segni di novità nei locali ambienti culturali, sono tutti artisti noti e consolidati. Questi, onorevoli interpreti della tradizione e delle istanze del nostro tempo, hanno come fine principale quello della comunicazione, che poi è il fine fondamentale di tutta l’arte, o meglio della comunicabilità dei propri lavori i quali, prima di essere semplici o complessi oggetti estetici, sono innanzitutto “partecipazione”.

Ecco così, dopo brevi premesse, una rapida disanima degli artisti intervenuti e delle loro opere. Pilò riflette sulle forme della tradizione (la cornice, il vetro, la forma ovale) ma tratta la superficie come uno spazio significante, in virtù della giustapposizione di colori, e fortemente storicizzato, ovvero come un palinsesto dove forme tradizionali ed espressive convivono in magico equilibrio. Il pennello incollato in alto, sul bordo, sembra così rimandare al fare pittorico in quanto tecne prima di tutto. Antonella Peluso rielabora il nudo classico, quasi accademico, inserendolo entro uno sfondo sinteticamente trattato; il distacco tra carne e piano, così, reso ottimamente dalla diversità delle pennellate, appare felice intuizione. L’opera di Antonio Pallotta non può che rimandare alla concezione della superficie pittorica come “pianale”, ossia spazio reale dove si sommano gli oggetti della quotidianità, quasi spontaneamente, vivificando lo spazio e rendendolo significante. Le schede di computer, le reti metalliche, i fiori, le aste ripartiscono il piano incorniciando una concreta “natura morta”. La vividezza dei colori concorre a portare gli oggetti su un piano diverso da quello della normale realtà. Arturo Beltrante, attraverso pura astrazione di forme e di tinte, scansiona la tela, assembla e giustappone masse e spazi, crea impressioni e suggestioni fatte di pura materia pittorica. Le due tele di Cristina Valerio, quasi un pendant, propongono atmosfere magiche e rarefatte; forme plastiche, quasi lunari, sembrano muoversi in un’atmosfera trasognata ed emotivamente coinvolgente. Il colore, brillante e primario, evoca silenziosi notturni. Angelo Cianchetta attraverso la dissoluzione della forma ottenuta col violento e suggestivo uso del colore crea ipotesi morfologiche, brutali e significanti, che vibrano di per se stesse in virtù di forze remote. La tela di Elena Maglione, l’unico esempio pittorico di recupero della figuratività, evoca attraverso il ricorso ad un taglio cinematografico, volutamente significante, stati d’animo ed emozioni. La città sfuma sullo sfondo mentre il primo piano con le figure, nitido e cromaticamente freddo, non è che metafora di incomunicabilità e alienazione. Nino Barone propone un altro palinsesto artistico, in questo caso palinsesto di memorie. Sovrappone alla tradizione, figurata da icone medievali, tutta l’espressiva valenza del segno che sembra configurarsi in un accenno di fisionomia. Ecco allora come l’icona diventa elemento contemporaneo ed il segno assurge invece ad intensa icona. Nazzareno Serricchio lavora sulla materia dividendo il supporto in diverse sezioni per sperimentare forme e materiali. A sinistra una sorta di cretto astratto, multicolore e multispessore, cattura per la purezza delle cromie. A destra la plastica simula la materia pittorica, l’impasto denso dei tubetti, il vigore del gesto. Il tutto regolarizzato da una sapiente spartizione dello spazio. L’opera di Antonio Tramontano più che suggerire, racconta. La rielaborazione delle forme, derivata da una evidente padronanza della figurazione, porta a proporre anatomie fantastiche che si muovono libere nello spazio pittorico proponendo storie possibili. La pennellata mette in risalto la volumetria, il chiaroscuro scolpisce le masse, le figure, frutto di un personale bestiario immaginario, colpiscono per la vividezza. Walter Giancola con la sua testa scolpita recupera le fisionomie archetipiche della tradizione. Eleganti lineamenti arcaici caratterizzano le fattezze di una maschera silenziosa e nobile che, con la sua ieratica espressione, osserva la mostra quasi come un costante e muto commento all’arte che la circonda. Valentino Robbio propone, con la sua installazione, un ironico sguardo sull’attualità. Semplice e genuinamente provocatorio lavora sul senso degli oggetti (le matite ingigantite) e sul linguaggio. Il testo diventa allora più significante della pratica pittorica proprio in virtù della sua contestualizzazione in uno spazio espositivo. Benvenuto Succi gioca sul senso degli oggetti e la sua azione ha molto di dadaista in quanto ironica riflessione sulla percezione delle cose. Solo decontestualizzando inutili beni materiali questi possono aspirare allo status di opera, anche con una sottesa dose di provocazione. Michele Peri, infine, nello zona antistante la sala, dialoga con lo spazio, la fisica e gli elementi. L’aria che muove le corde; l’acqua dove si rispecchiano le gocce appese; la terra dove, fisicamente, queste sono attratte; il fuoco che metaforicamente viene sprigionato da questa costante tensione tra gli oggetti, attuali “pendoli di Foucault”.

Per concludere Contemporanea al Castello è risultata una riuscita esposizione d’arte sia nel confronto-scontro tra l’ambiente antico del palazzo e la positiva modernità delle opere, elementi significanti in quanto personali e sentite rielaborazioni delle istanze artistiche della nostra epoca, sia per la ventata di novità e di innovazione portata nel paese. Una mostra, per quanto piccola, è sempre un evento per gli spettatori, posti davanti alle rielaborazioni espressive più diverse, e per i maestri, messi in relazione ma non classificati in virtù di una maggiore o minore attitudine artistica. Contemporanea al Castello è voluta essere anche questo.

A cura di: Antonio Picariello

Direzione artistica: Antonio Tramontano

Recensione e critica: Tommaso Evangelista

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